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"In questo tempo andando io spesso la sera, finita la giornata, a veder cenare il detto illustrissimo cardinal Farnese, dove erano sempre a trattenerlo con bellissimi et onorati ragionamenti il Molza, Anibal Caro, messer Gandolfo, messer Claudio Tolomei, messer Romolo Amasseo, monsignor Giovio, et altri molti letterati e galantuomini, de' quali è sempre piena la corte di quel signore, si venne a ragionare, una sera fra l'altre, del Museo del Giovio e de' ritratti degl'uomini illustri che in quello ha posti con ordine et inscrizioni bellissime; e passando d'una cosa in altra, come si fa ragionando, disse monsignor Giovio avere avuto sempre gran voglia, et averla ancora, d'aggiugnere al Museo et al suo libro degli Elogii un trattato, nel quale si ragionasse degl'uomini illustri nell'arte del disegno, stati da Cimabue insino a' tempi nostri. Dintorno a che allargandosi, mostrò certo aver gran cognizione e giudizio nelle cose delle nostre arti; ma è ben vero che bastandogli fare gran fascio, non la guardava così in sottile, e spesso, favellando di detti artefici, o scambiava i nomi, i cognomi, le patrie, l'opere, o non dicea le cose come stavano apunto, ma così alla grossa. Finito che ebbe il Giovio quel suo discorso, voltatosi a me, disse il cardinale: "Che ne dite voi, Giorgio, non sarà questa una bell'opera e fatica?". "Bella, - rispos'io - monsignor illustrissimo, se il Giovio sarà aiutato da chi che sia dell'arte a mettere le cose a' luoghi loro et a dirle come stanno veramente. Parlo così, perciò che, se bene è stato questo suo discorso maraviglioso, ha scambiato e detto molte cose una per un'altra". "Potrete dunque, - soggiunse il cardinale, pregato dal Giovio, dal Caro, dal Tolomei e dagl'altri - dargli un sunto voi, et una ordinata notizia di tutti i detti artefici, dell'opere loro secondo l'ordine de' tempi; e così aranno anco da voi questo benefizio le vostre arti". La qual cosa, ancorché io conoscessi essere sopra le mie forze, promisi, secondo il poter mio, di far ben volentieri. E così messomi giù a ricercare miei ricordi e scritti, fatti intorno a ciò infin da giovanetto per un certo mio passatempo e per una affezione che io aveva a la memoria de' nostri artefici, ogni notizia de' quali mi era carissima, misi insieme tutto che intorno a ciò mi parve a proposito, e lo portai al Giovio; il quale, poi che molto ebbe lodata quella fatica, mi disse: "Giorgio mio, voglio che prendiate voi questa fatica di distendere il tutto in quel modo che ottimamente veggio saprete fare, perciò che a me non dà il cuore, non conoscendo le maniere, né sapendo molti particolari che potrete sapere voi: sanzaché, quando pure io facessi, farei il più più un trattatetto simile a quello di Plinio. Fate quel ch'io vi dico, Vasari, perché veggio che è per riuscirvi bellissimo, che saggio dato me ne avete in questa narrazione". Ma parendogli che io a ciò fare non fussi molto risoluto, me lo fe' dire al Caro, al Molza, al Tolomei et altri miei amicissimi; per che risolutomi finalmente, vi misi mano con intenzione, finita che fusse, di darla a uno di loro, che, rivedutola et acconcia, la mandasse fuori sotto altro nome che il mio. Intanto, partito di Roma l'anno 1546 del mese d'ottobre, e venuto a Fiorenza, feci alle monache del famoso monasterio delle Murate, in tavola a olio, un Cenacolo per lo loro refettorio; la quale opera mi
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fu fatta fare e pagata da papa Paulo Terzo, che aveva monaca in detto monasterio una sua cognata, stata contessa di Pitigliano."